Quello che gli altri non dicono

Mi chiamo Luca, ma a volte ho la sensazione che il mio nome, la mia voce, la mia personalità intera si dissolvano dietro un solo, ingombrante dettaglio: il mio corpo. O, per essere più precisi, il mio peso.

Sono una persona molto sovrappeso. Non lo nascondo, non lo nego, ma neanche voglio che sia il mio unico tratto identificativo. Eppure, è esattamente quello che succede, costantemente.

Ogni volta che entro in una stanza, ogni volta che mi presento a qualcuno, ogni volta che parlo con amici, familiari, conoscenti sento come se la conversazione, anche se non esplicitamente, passasse attraverso un filtro: il mio aspetto fisico. È come se il mio corpo fosse la lente attraverso cui viene letta ogni mia parola, ogni mio gesto, ed è una sensazione che logora, lentamente ma senza tregua.

Non voglio sembrare vittimista, ma vi assicuro che è devastante quando anche chi dovrebbe amarti – genitori, partner, amici stretti – finisce per cadere nella stessa trappola. “Lo dico per il tuo bene”, “Mi preoccupo per la tua salute”, “Dovresti fare qualcosa”. Frasi che conosco a memoria, che arrivano persino da chi ti guarda con amore, ma che poi sembra dimenticare tutto il resto di te.

Sono intelligente, ho studiato, sono curioso, ironico, abbastanza empatico, ho passioni, sogni, una cultura discreta e una generosità che mi ha spesso fatto mettere da parte i miei bisogni per aiutare gli altri. Ma, spesso, sento che nulla di tutto questo conti se prima non dimagrisco, come se valessi meno finché non entro in una taglia accettabile.

E vorrei potervi dire che non ho mai provato a cambiare, che ho semplicemente accettato la mia condizione e basta. Ma sarebbe una bugia. Ho provato a seguire alcune diete e a svolgere una minima attività fisica per quanto il mio peso potesse consentire. In certi periodi sono anche riuscito a perdere qualche chilo, per poi riprenderlo puntualmente, a volte con gli interessi.

Il corpo sembra ribellarsi. Il metabolismo, l’umore, le energie: tutto sembra remarmi contro, e quel che è peggio è che ogni fallimento pesa più dei chili stessi. Perché non è solo la bilancia a giudicarti: sono anche gli altri, e – peggio ancora – sei tu stesso a sentirti in colpa, incapace, inadeguato.

E poi ci sono quei momenti strani, imprevisti, che ti colpiscono quando meno te lo aspetti. Come quando ascolto “L’elefante e la farfalla” di Zarrillo. C’è una delicatezza struggente in quella canzone, ma anche un’immagine che mi trafigge: la goffaggine, la sproporzione, l’idea di essere un peso che non può volare. E anche se capisco che il brano parla d’amore, io non riesco a non vedermi in quell’elefante che, per quanto si sforzi, non riuscirà mai a essere leggero.

Oppure “My Body Is a Cage” di Peter Gabriel. Una canzone splendida, profonda, poetica. Ma devastante per me. Quelle parole – “my body is a cage that keeps me from dancing with the one I love” – sono una ferita aperta. Perché è proprio così che mi sento: imprigionato. Dentro un corpo che gli altri non capiscono, che io stesso non riesco a cambiare, che sembra separarmi da tutto ciò che potrei essere. Dalla libertà, dalla leggerezza, dalla felicità. A volte spengo la musica, a metà canzone, perché non ce la faccio. È troppo vicina alla verità.

Ho iniziato a dubitare di me stesso. Mi guardo allo specchio e non vedo più le mie qualità, vedo solo lo sguardo che gli altri proiettano su di me, uno sguardo di giudizio, pena o preoccupazione, mai neutro, mai libero. Non mi sento più amato per quello che sono, ma condizionato da un eterno “ma”: “Se solo tu perdessi peso…”.

Questa pressione ha iniziato a intaccare la mia salute mentale. Ansia, isolamento, un senso di colpa cronico che accompagna ogni pasto, ogni foto, ogni uscita. Non sto male solo per il mio corpo: sto male perché sento che, per il mondo, il mio corpo è la mia unica identità.

Ma oggi scrivo queste parole non solo per sfogarmi, ma per reclamare qualcosa: il diritto a essere visto nella mia interezza. Il diritto a non dover dimagrire per essere ascoltato, rispettato, amato. Il diritto di vivere in un corpo grande senza essere ridotto a esso.

So di non essere solo. Tanti vivono questa invisibile battaglia, fatta di sguardi taglienti e sorrisi falsamente compassionevoli. A chiunque si senta come me, voglio dire questo: resistiamo. Continuiamo a raccontarci, a mostrarci, a pretendere che la nostra voce venga ascoltata non nonostante il nostro corpo, ma insieme al nostro corpo. Perché valiamo già. Senza condizioni.