Quello che gli altri non dicono

Mi chiamo Luca, ma a volte ho la sensazione che il mio nome, la mia voce, la mia personalità intera si dissolvano dietro un solo, ingombrante dettaglio: il mio corpo. O, per essere più precisi, il mio peso.

Sono una persona molto sovrappeso. Non lo nascondo, non lo nego, ma neanche voglio che sia il mio unico tratto identificativo. Eppure, è esattamente quello che succede, costantemente.

Ogni volta che entro in una stanza, ogni volta che mi presento a qualcuno, ogni volta che parlo con amici, familiari, conoscenti sento come se la conversazione, anche se non esplicitamente, passasse attraverso un filtro: il mio aspetto fisico. È come se il mio corpo fosse la lente attraverso cui viene letta ogni mia parola, ogni mio gesto, ed è una sensazione che logora, lentamente ma senza tregua.

Non voglio sembrare vittimista, ma vi assicuro che è devastante quando anche chi dovrebbe amarti – genitori, partner, amici stretti – finisce per cadere nella stessa trappola. “Lo dico per il tuo bene”, “Mi preoccupo per la tua salute”, “Dovresti fare qualcosa”. Frasi che conosco a memoria, che arrivano persino da chi ti guarda con amore, ma che poi sembra dimenticare tutto il resto di te.

Sono intelligente, ho studiato, sono curioso, ironico, abbastanza empatico, ho passioni, sogni, una cultura discreta e una generosità che mi ha spesso fatto mettere da parte i miei bisogni per aiutare gli altri. Ma, spesso, sento che nulla di tutto questo conti se prima non dimagrisco, come se valessi meno finché non entro in una taglia accettabile.

E vorrei potervi dire che non ho mai provato a cambiare, che ho semplicemente accettato la mia condizione e basta. Ma sarebbe una bugia. Ho provato a seguire alcune diete e a svolgere una minima attività fisica per quanto il mio peso potesse consentire. In certi periodi sono anche riuscito a perdere qualche chilo, per poi riprenderlo puntualmente, a volte con gli interessi.

Il corpo sembra ribellarsi. Il metabolismo, l’umore, le energie: tutto sembra remarmi contro, e quel che è peggio è che ogni fallimento pesa più dei chili stessi. Perché non è solo la bilancia a giudicarti: sono anche gli altri, e – peggio ancora – sei tu stesso a sentirti in colpa, incapace, inadeguato.

E poi ci sono quei momenti strani, imprevisti, che ti colpiscono quando meno te lo aspetti. Come quando ascolto “L’elefante e la farfalla” di Zarrillo. C’è una delicatezza struggente in quella canzone, ma anche un’immagine che mi trafigge: la goffaggine, la sproporzione, l’idea di essere un peso che non può volare. E anche se capisco che il brano parla d’amore, io non riesco a non vedermi in quell’elefante che, per quanto si sforzi, non riuscirà mai a essere leggero.

Oppure “My Body Is a Cage” di Peter Gabriel. Una canzone splendida, profonda, poetica. Ma devastante per me. Quelle parole – “my body is a cage that keeps me from dancing with the one I love” – sono una ferita aperta. Perché è proprio così che mi sento: imprigionato. Dentro un corpo che gli altri non capiscono, che io stesso non riesco a cambiare, che sembra separarmi da tutto ciò che potrei essere. Dalla libertà, dalla leggerezza, dalla felicità. A volte spengo la musica, a metà canzone, perché non ce la faccio. È troppo vicina alla verità.

Ho iniziato a dubitare di me stesso. Mi guardo allo specchio e non vedo più le mie qualità, vedo solo lo sguardo che gli altri proiettano su di me, uno sguardo di giudizio, pena o preoccupazione, mai neutro, mai libero. Non mi sento più amato per quello che sono, ma condizionato da un eterno “ma”: “Se solo tu perdessi peso…”.

Questa pressione ha iniziato a intaccare la mia salute mentale. Ansia, isolamento, un senso di colpa cronico che accompagna ogni pasto, ogni foto, ogni uscita. Non sto male solo per il mio corpo: sto male perché sento che, per il mondo, il mio corpo è la mia unica identità.

Ma oggi scrivo queste parole non solo per sfogarmi, ma per reclamare qualcosa: il diritto a essere visto nella mia interezza. Il diritto a non dover dimagrire per essere ascoltato, rispettato, amato. Il diritto di vivere in un corpo grande senza essere ridotto a esso.

So di non essere solo. Tanti vivono questa invisibile battaglia, fatta di sguardi taglienti e sorrisi falsamente compassionevoli. A chiunque si senta come me, voglio dire questo: resistiamo. Continuiamo a raccontarci, a mostrarci, a pretendere che la nostra voce venga ascoltata non nonostante il nostro corpo, ma insieme al nostro corpo. Perché valiamo già. Senza condizioni.

Riflessioni di un padre

Essere genitore non è mai stato semplice, ma farlo oggi, con un figlio adolescente, è una vera sfida. Non ci sono manuali, non esistono risposte universali. Ogni giorno è un equilibrio tra il desiderio di proteggerlo e la necessità di lasciarlo andare. E mentre lui cambia, mi accorgo che a cambiare – forse per la prima volta dopo tanti anni – sono anch’io.

Una delle contraddizioni più forti che noto è questa: i ragazzi di oggi sono sempre online, ma raramente connessi davvero. Passano ore sui social, parlano con decine di persone, ma spesso si sentono profondamente soli. Mio figlio passa ore sui videogiochi come fosse una finestra sul mondo, ma ne esce sempre un po’ più confuso, un po’ più insicuro. I paragoni con le vite “perfette” che ci vengono continuamente proposte sono inevitabili, e minano la fiducia in sé stessi.

Cosa possiamo fare? Limitare il tempo passato al PC può aiutare, ma non basta. E’ importante accompagnarli a un uso più consapevole di questi strumenti. Mostrare che il videogioco è finzione, spiegare che la realtà non è quella che vedono sullo schermo. E soprattutto, offrire alternative concrete: sport, arte, musica, esperienze condivise.

Ricordo quando mio figlio era piccolo: parlava senza sosta, mi cercava per ogni cosa. Oggi spesso si chiude in camera, parla poco, gioca e ascolta musica con le cuffie, e sembra distante anni luce. Ma ho imparato che dietro quei silenzi c’è tutto un mondo: dubbi, domande, emozioni. Non è facile, ma dobbiamo essere presenti, anche quando sembra che non serva.

Il segreto? Ascoltare. Non giudicare. Fare domande senza interrogare. E creare piccoli riti: una cena senza telefoni, una serie TV da guardare insieme, una passeggiata nel weekend. Spesso è in quei momenti “normali” che si aprono spiragli di dialogo.

A scuola, oggi, c’è una pressione enorme. Non si tratta solo di studiare, ma di “funzionare”, di stare al passo, di non sbagliare. Mio figlio, come tanti, vive l’ansia da prestazione in modo molto forte. E la pandemia ha solo peggiorato le cose, lasciando una generazione un po’ più fragile, più diffidente, meno preparata alla socialità.

E noi genitori? Dobbiamo abbassare l’asticella del giudizio e alzare quella dell’ascolto. Aiutiamoli a capire che il valore di una persona non si misura con un voto. E cerchiamo il dialogo con gli insegnanti: una scuola davvero efficace è quella che collabora con la famiglia, che vede ogni studente nella sua interezza, non solo attraverso i numeri.

Essere padre oggi significa imparare a stare nel dubbio. Significa smettere di cercare risposte pronte e iniziare ad ascoltare davvero. Gli adolescenti di oggi crescono in un mondo complicato, ma hanno anche risorse straordinarie. Noi possiamo essere la bussola che li orienta, senza imporre la rotta.

E forse, alla fine, è proprio questo il nostro ruolo: non guidare, ma camminare accanto.

Non sono un esperto, né uno psicologo. Sono semplicemente un papà che prova a fare del suo meglio. Scrivere mi aiuta a mettere ordine nei pensieri, e condividere queste riflessioni è un modo per non sentirmi solo in questo viaggio.

E tu? Hai figli adolescenti? Ti rivedi in queste parole o hai vissuto esperienze diverse? Scrivilo nei commenti: il confronto tra genitori può essere una risorsa preziosa. E se pensi che questo articolo possa essere utile a qualcuno, condividilo!

Thank you for the music

Da quando ho memoria, ricordo di avere sempre amato la musica.
Come molti adolescenti, mi chiudevo in camera ad ascoltare la radio per ore. Solo che avevo 6 anni.
Ascoltavo principalmente canzoni in inglese, e mi affascinava quella lingua che non conoscevo ancora.

Poco dopo mio padre acquistò il nostro primo stereo (un Sansui) e lo portò a casa con due LP: “The Wall” dei Pink Floyd e “The age of plastic” dei Buggles. Entrambi mi folgorarono, per motivi diversi, e li amo entrambi alla follia ancora oggi. Non per nulla i Pink Floyd sono da sempre la mia band preferita.

A 7 anni visto quanto mi piaceva i miei mi comprarono un organo Bontempi e con quello iniziai a fare esperienza, aveva dei ritmi basilari di batteria e suonandoci sopra imparai la suddivisione del tempo.

Alle medie iniziai a studiare canto con un insegnante bravissimo e feci anche il solista nel coro della scuola; smisi quando la mia voce smise di essere una “voce bianca”.

A 14 anni ricevetti una tastiera Technics SX-K700 che all’epoca sembrava un’astronave e che mi permise di sperimentare cose nuove, ricordo che riuscivo a suonare praticamente tutta “Shine on you crazy diamond”, con l’esclusione della parte di chitarra.

Questa cosa però mi faceva incazzare, così poco tempo dopo su “Porta Portese” (chi se lo ricorda?) trovai una chitarra elettrica Gherson imitazione SG, la famosa “Diavoletto”. Ricordo ancora quando mio zio Sergio mi accompagnò a prenderla a Casalpalocco. Non avevo un amplificatore per chitarra e la collegavo senza alcun tipo di effetto all’amplificatore stereo di casa.

A questo punto da totale autodidatta riuscii a registrare sul sequencer della tastiera tutte le parti di “Shine on” suonandoci sopra la chitarra (con, lo ammetto, scarsi risultati).

A 16 anni decisi che la chitarra non faceva per me (anche se ancora oggi mi piace suonarla ma solo per cose semplici) e decisi che con quello che avevo da parte tutto sommato avrei potuto anche comprare un basso elettrico. Mi imbarcai allora col mio Sì Piaggio ed il mio grande amico Stefano (un vero fratello, compagno di tante avventure) verso un negozio che probabilmente non esiste più, e cioè Cristina D’Amore a via Principe Amedeo. L’avventura più grande fu riuscire a portare il basso a casa integro…

Poco tempo dopo ci fu il mio battesimo dal vivo: per l’ultimo giorno dell’autogestione alle superiori (non ricordo se all’epoca facessi il quarto o il quinto) organizzammo un concerto di 5-6 brani nel cortile della scuola, tutti musicisti “scappati di casa” con solo 4 giorni di prove alle spalle. Non ero ancora pratico con il basso e quindi suonavo la tastiera. Però fu un successo, se non per chi ci ha ascoltato sicuramente per noi tant’è che ricordo ancora come fosse oggi le sensazioni che provai.

Dopo la scuola comunque, con il primo stipendio da fattorino in una tipografia, realizzai un mio vecchio sogno: acquistare una chitarra uguale a quella di David Gilmour, così andai da Ricordi a via del Corso e presi una Fender Stratocaster American Standard, che ho ancora oggi e che mi piace da matti.

Comunque, per diverso tempo dopo l’esperienza “scolastica” non ebbi più occasione di suonare in una band, complici la maturità, poi il servizio militare durante il quale conobbi Daniele che suonava la chitarra e che dopo qualche tempo dal congedo mi contattò per provare a suonare insieme. Da lì partì l’avventura “Limited Edition”, con i quali suonai per diversi anni con alterne fortune maturando una grande esperienza delle meccaniche di una band ma rimanendo una sega immane come musicista.

Dopo qualche anno anche quest’avventura terminò, non ricordo bene come o perché. Forse non ci fu nemmeno un motivo preciso. La micidiale combinazione lavoro-famiglia ebbe però una parte importante. Semplicemente smettemmo di vederci. Iniziò così un lungo periodo, circa vent’anni, nel quale pur continuando ad ascoltare musica a ritmo continuo persi l’interesse nel suonare.

E’ difficile dire il perché. Vero è che una volta che inizi a suonare in un gruppo è quasi inconcepibile ricominciare a suonare da solo. La svolta ci fu quando mia figlia Giulia iniziò a studiare chitarra. Iniziai ad ascoltarla mentre suonava nel gruppo del laboratorio e tornò a salirmi la scimmia per riprendere.

L’occasione si presentò nel 2019 quando anche io decisi di iscrivermi alla stessa scuola di musica per studiare sul serio il basso elettrico con Stefano Rossi (bassista, tra gli altri, di Dolcenera).
Già alla prima lezione di prova capii subito quanto avessi sempre sbagliato. La mia impostazione era completamente errata e sotto la sua guida sono riuscito a cambiarla con una più ortodossa, traendo grande giovamento anche nell’efficacia di quanto suonavo.

Iniziai a partecipare anche io ad un gruppo laboratorio nella stessa scuola, fino al febbraio 2020 quando il maledetto Covid interruppe tutte le nostre attività. Quando riprendemmo ebbi la fortuna di suonare per due anni nel gruppo laboratorio insieme a Giulia (ahimè nel doppio ruolo bassista/cantante) e quindi di esibirmi insieme a lei sul palco di Locanda Blues per diverse volte in occasione dei saggi di fine anno organizzati dalla scuola.

Addirittura l’ultimo anno suonai in due gruppi diversi, nel secondo solo come cantante.

Proprio in questo secondo gruppo militava Nello, un signore un po’ anziano con la passione per la musica che guarda caso conosceva un altro signore che stava cercando di formare un gruppo.

Ci incontrammo, suonammo, e formammo alla fine questa band, alla quale nel tempo si aggiunsero altre persone che decisero che il nome più adatto per il gruppo fosse “The Grandfathers”.

Il resto è storia…

(Per Adamo, Alberto, Aldo, Nicola, Paolo e Tranquillino, i membri attuali in rigoroso ordine alfabetico, e Angela che ha cantato con noi fino a pochi mesi fa)

This is a test of the emergency broadcast system

I Rischi e i Pericoli dell’Intelligenza Artificiale

L’intelligenza artificiale (IA) sta trasformando rapidamente il nostro mondo, offrendo innovazioni straordinarie in molti settori. Tuttavia, insieme ai benefici, emergono anche rischi e pericoli che meritano attenzione e gestione responsabile.

Uno dei principali pericoli riguarda la sicurezza. Algoritmi avanzati possono essere sfruttati per scopi malevoli, come la creazione di deepfake, cyber attacchi automatizzati e manipolazione dell’informazione. La disinformazione generata dall’IA può influenzare l’opinione pubblica e minacciare la stabilità politica.

Un altro rischio significativo è la perdita di posti di lavoro. L’automazione, resa possibile dall’IA, sta sostituendo molte mansioni umane, specialmente in settori come la produzione industriale, il customer service e persino la medicina. Ciò potrebbe portare a una crisi occupazionale e all’aumento delle disuguaglianze sociali.

Un aspetto critico è anche la mancanza di trasparenza degli algoritmi. Molti sistemi IA sono delle “scatole nere”, il che significa che nemmeno i loro creatori comprendono completamente il processo decisionale. Questo solleva questioni etiche, soprattutto in ambiti come la giustizia e la finanza, dove errori o bias possono avere conseguenze gravi.

Infine, il pericolo più temuto è quello legato allo sviluppo di un’IA superintelligente che possa sfuggire al controllo umano. Molti esperti, tra cui Elon Musk e il fisico Stephen Hawking, hanno avvertito dei potenziali rischi esistenziali legati a una IA che potrebbe agire in modo indipendente e con obiettivi non allineati a quelli umani.

Per affrontare questi problemi, è essenziale sviluppare regolamentazioni efficaci, promuovere un uso etico dell’IA e sensibilizzare il pubblico sui suoi potenziali pericoli. Solo con un approccio consapevole e responsabile sarà possibile sfruttare l’intelligenza artificiale in modo sicuro e benefico per l’umanità.

(contenuto generato da chatgpt)

Annuntio vobis gaudium magnum: habemus cantor!

Dopo settimane di audizioni, prove e qualche momento di frustrazione, finalmente ce l’abbiamo fatta! La nostra band rock ha trovato il nuovo cantante, e non potremmo essere più entusiasti! È stata una lunga ricerca, ma ora siamo pronti a decollare verso nuovi orizzonti musicali.

Non vediamo l’ora di salire sul palco insieme a lui e far vibrare l’intero pubblico con la nostra musica.

Dopo tanta attesa, siamo finalmente al completo e pronti a mettere in pratica tutto ciò che abbiamo sognato. Il futuro non è mai stato così rock! Stay tuned, ci aspetta una nuova era musicale! 🤘🎤

Un ponte per…

Tra gli oggetti teorici che mi hanno affascinato da sempre, al primo posto assoluto per distacco c’è il ponte di Einstein-Rosen. Ma di cosa si tratta? Spiegarlo in termini comprensibili a tutti è decisamente un’impresa complicata. Proviamoci lo stesso.

Un ponte di Einstein-Rosen, spesso chiamato “tunnel spaziale” o “wormhole”, è un concetto affascinante che nasce dalla teoria della relatività generale di Albert Einstein. Immagina il tessuto dello spazio-tempo come se fosse un foglio di carta, di piegarlo e di fare passare una matita in un buco attraverso di essa. In questo modo, invece di percorrere una lunga distanza, potresti “saltare” direttamente da un punto all’altro dello spazio, senza dover attraversare il percorso intermedio.

Per capire meglio, bisogna partire dalla teoria della relatività di Einstein, che descrive come la gravità influenzi lo spazio-tempo. Secondo questa teoria, lo spazio-tempo è come una rete flessibile che può essere deformata da oggetti massicci come stelle e pianeti. Un “ponte di Einstein-Rosen” è una sorta di tunnel che collega due punti distanti nello spazio-tempo, permettendo un passaggio diretto tra di essi.

Ma come funziona il ponte di Einstein-Rosen?

Per semplificare, immagina lo spazio-tempo come una distesa piatta. Se metti un oggetto pesante, come una palla, sulla distesa, questa si incurva verso il basso, creando una sorta di “depressione”. Ora, se prendi un’altra palla e la metti lontano dalla prima, e poi provi a collegarle con un tunnel che attraversa la curvatura, potresti immaginare un “ponte” che collega le due aree, passando attraverso la curvatura dello spazio-tempo. Questo ponte sarebbe un “wormhole”.

In teoria, un wormhole permetterebbe di spostarsi da un punto all’altro dell’universo in tempi molto brevi, senza dover percorrere tutta la distanza tra i due punti. Tuttavia, questo rimane solo un concetto teorico e non abbiamo mai trovato un wormhole nel mondo reale.

Il concetto di ponte di Einstein-Rosen è stato introdotto da Albert Einstein e dal fisico Nathan Rosen nel 1935, quando hanno studiato le soluzioni alle equazioni di campo della relatività generale. Inizialmente, lo studio era focalizzato su particolari “soluzioni” matematiche per descrivere le particelle subatomiche. Però, con il tempo, si è compreso che queste soluzioni potevano anche essere interpretate come ponti nello spazio-tempo.

Questi “ponti” non sono davvero come dei tunnel che possiamo attraversare, ma una curiosa struttura matematica che lega due punti di spazio-tempo. In altre parole, sono una possibilità teorica che potrebbe esistere, ma senza alcuna evidenza concreta.

Un aspetto molto affascinante dei ponti di Einstein-Rosen è che, se esistessero davvero, potrebbero rendere possibile viaggiare velocemente attraverso l’universo. Questo concetto ha ispirato numerosi film e libri di fantascienza, dove i personaggi viaggiano attraverso wormhole per spostarsi tra stelle e galassie in modo istantaneo. Ma ci sono molte sfide teoriche e pratiche che dovremmo affrontare per capire se i ponti di Einstein-Rosen potrebbero essere reali o utili.

Uno dei problemi principali riguarda la stabilità del wormhole. Secondo le equazioni matematiche, un ponte di Einstein-Rosen sarebbe estremamente instabile e collasserebbe immediatamente a meno che non fosse sostenuto da una forma di materia sconosciuta, chiamata “materia esotica”, che ha proprietà molto strane, come la capacità di esercitare una pressione negativa.

Insomma, il ponte di Einstein-Rosen è per ora solo un’idea teorica affascinante. Nonostante sia una parte importante delle teorie cosmologiche e della fisica moderna, non abbiamo ancora trovato prove che questi ponti esistano davvero. Tuttavia, continuare a esplorare queste idee ci aiuta a capire meglio l’universo e le leggi che lo governano, aprendo la porta a nuove scoperte nel campo della fisica e della cosmologia.

Stregati dalla luna?

Mi stupisce da sempre come molte persone ancora oggi credano a delle grandissime assurdità.

Ad esempio ci sono credenze popolari legate alla luna e alla crescita delle piante, così come il mito secondo cui i kiwi maturano meglio vicino alle banane. A quanto pare sono parte di tradizioni che si tramandano di generazione in generazione. Sebbene affascinanti, queste pratiche non hanno alcun fondamento scientifico e si rivelano prive di logica alla luce delle conoscenze moderne.

Una delle credenze più diffuse è quella di piantare ortaggi, o travasare il vino, a seconda delle fasi lunari: luna crescente o calante. Secondo questa teoria, la luna avrebbe un’influenza gravitazionale che condizionerebbe la crescita delle piante, favorendo o ostacolando la germinazione e lo sviluppo. Tuttavia, la forza gravitazionale della luna è troppo debole per avere un impatto tangibile sulle piante. La crescita degli ortaggi dipende principalmente da fattori come la qualità del terreno, l’acqua, la luce e la temperatura, tutti elementi che non sono influenzati dalla fase lunare.

Inoltre, il fatto che la luna sia calante o crescente, piena o meno non toglie il fatto che il resto del satellite sia comunque presente. Non è che se vedi solo una falce di luna il resto è a fare la spesa da Eurospin.

Un’altra credenza popolare è quella secondo cui i kiwi maturano più velocemente se posti vicino alle banane. Questo mito si basa sul fatto che le banane emettono etilene, un gas che accelera il processo di maturazione dei frutti. Tuttavia, non è affatto necessario mettere i kiwi accanto alle banane per sfruttare questo effetto. Qualsiasi frutto che produce etilene, come le mele, potrebbe avere (non è dimostrato) lo stesso effetto sui kiwi, e non serve nemmeno avvicinarli fisicamente ad altri frutti per ottenere il risultato.

Sebbene queste tradizioni abbiano una lunga storia e possano sembrare interessanti, la scienza moderna ci insegna che la crescita delle piante e la maturazione dei frutti dipendono da fattori ben più concreti rispetto a credenze superstiziose o rituali legati alla luna o alla vicinanza di frutti specifici. La natura segue leggi biologiche ben definite, ed è meglio fidarsi della scienza piuttosto che delle antiche convinzioni popolari.

CAPITO MAMMA?

L’ (im)possibile impresa di trovare il cantante perfetto

Cari amici, oggi voglio raccontarvi la storia di una delle sfide più epiche, tragiche, e a volte anche comiche, che una band possa affrontare: la ricerca del cantante. Ah sì, quel mito quasi intoccabile che dovrebbe essere capace di portare la band al successo mondiale, ma che spesso è più elusivo di una rockstar durante la settimana di riposo.

Immaginatevi: siete una band con dei pezzi pazzeschi, un sound che farebbe impallidire anche i leggendari Led Zeppelin. La batteria è potente (insomma), le chitarre da far venire la pelle d’oca (per i motivi sbagliati) e il basso, beh, il basso è talmente groove che farebbe ritornare i morti dalla tomba (ma solo per andare a morire un po’ più lontano). Eppure, c’è qualcosa che manca: la voce. Quella voce che non solo deve arrivare a “rompere” i timpani, ma anche essere capace di cantare senza sembrare un gatto strozzato. Ma dove si trova un cantante che faccia il suo lavoro senza voler trasformare ogni canzone in un musical di Broadway? O senza voler rendere ogni concerto un numero da “X Factor”?

La ricerca inizia. Prima ci sono gli annunci. “Cercasi cantante con esperienza, in grado di non stuprare le canzoni”. Poi arrivano le audizioni. Ah, le audizioni. Ogni volta speri di trovare quella voce che ti farà dire “Eureka!”, ma finisci per sentire qualcosa che ti fa solo chiedere: “Forse stiamo cercando la persona giusta per… un’altra band?” O, peggio ancora, ti capita il tipo che canta solo cover di “Tutti i miei sbagli” e lo fa con l’intensità di un drama teenager.

Poi arriva il candidato perfetto. “Finalmente!”, pensate. Ha il look giusto, la presenza scenica, la voce che sa emozionare… almeno fino a quando non lo sentite fare una prova. Ecco, non solo non è in grado di fare il minimo sforzo senza sembrare che stia cantando in una sauna, ma non riesce a ricordare nemmeno un verso della canzone. O peggio, mentre canta il brano, inizia a fare gesti strani e a scuotere la testa come se stesse cercando di scacciare uno stormo di piccioni invisibili.

La verità è che trovare il cantante giusto è come cercare l’ago nel pagliaio: difficile, frustrante, ma incredibilmente affascinante. Alla fine, però, il sacrificio vale la pena. Quando trovi finalmente quel cantante che sa quello che fa, sa stare sul palco, e sa anche come non mangiare il microfono come se fosse un gelato, ti rendi conto che è stato tutto un lungo percorso per una bella risata e, forse, il successo.

Alla fine, la ricerca del cantante perfetto è il viaggio. E, se non altro, è un ottimo materiale per scrivere nuove canzoni!

Sindrome cinese

Ogni tanto, quando ho bisogno di acquistare qualcosa di cui non mi interessa la massima qualità, o quando non ho fretta di ricevere la merce, do un’occhiata e acquisto su Aliexpress.

Ultimamente, avendo rimediato una CPU da un PC cannibalizzato, ho fatto un upgrade ad un vecchio iMac di quelli bianchi, che uso in laboratorio, un 20″ del 2006 (iMac4,1) montando un Core2Duo al posto del CoreDuo e flashandolo con il firmware dell’iMac del 2007 (iMac5,1). Le macchine sono perfettamente identiche a livello di hardware con la sola eccezione della CPU installata. La cosa buona è che contrariamente a quello del 4,1 il firmware del 5,1 riesce ad indirizzare 4 GB di RAM.

Ho così acquistato, come dicevo prima, su Aliexpress (insieme ad altre cose) due banchi so-dimm da 2GB DDR2-667 PC5300 (il controller della memoria dell’iMac non regge le DDR2-800), e quando sono arrivate per prima cosa le ho testate singolarmente. Il Mac con una si avvia ma il sistema crasha appena parte il WindowServer, con la rotella colorata che gira, e non arriva al desktop.

L’altra so-dimm non funziona per niente né viene in alcun modo riconosciuta dal Mac: quando la inserisco il Mac si accende ma non “bonga” e il led POWER rimane illuminato indefinitamente. Ho quindi contattato Aliexpress inviando i video del comportamento del Mac con le RAM installate chiedendo una sostituzione o, in subordine, un rimborso ma Aliexpress ha respinto il mio reclamo. Fortunatamente si trattava di un ordine da poco più di 7€, quindi ora so che non posso più fidarmi di loro per qualcosa di più prezioso.

Siccome le RAM mi servivano sono andato su Amazon come avrei dovuto fare dal primo momento che mi è venuto in mente di fare questo upgrade, ed ho preso due moduli certificati Apple a 14€ che arriveranno domani.

Occhio quando comprate cinese pensando di risparmiare.

Addendum del 6 marzo: ho rilasciato una recensione negativa con 1 stella (non è possibile darne di meno) sul sito di Aliexpress. Hanno pubblicato la recensione ma hanno aggiunto d’iniziativa altre 4 stelle. Di nuovo, occhio ad affidarvi alle recensioni che pubblicano o alle stelle assegnate ai prodotti.

L’elefante nella stanza

Dopo l’articolo su GNU/Linux vorrei parlarvi di quello che nella mia vita “social” ha preso il posto di Twitter, che ho abbandonato dopo l’acquisizione da parte di Elon Musk: Mastodon.

Mastodon è una piattaforma di social media che si distingue per il suo modello federato, che permette agli utenti di connettersi e interagire senza essere vincolati a una singola entità centralizzata. In pratica, Mastodon non è un unico sito, ma una rete di server indipendenti, noti come “istanze”, che possono dialogare tra loro, creando una struttura decentralizzata e più libera rispetto ai tradizionali social media centralizzati come Facebook o Twitter.

Questa federazione è fondamentale per garantire la libertà di espressione, la privacy e il controllo sui propri dati. Ogni istanza su Mastodon è gestita autonomamente e può stabilire le proprie regole, permettendo una gestione più personalizzata delle interazioni e una maggiore tutela degli utenti. Inoltre, grazie a questo sistema distribuito, non esiste una singola entità che possa monopolizzare i contenuti o manipolare gli algoritmi in base a logiche commerciali.

L’importanza di un social federato come Mastodon risiede anche nella possibilità di sfuggire al controllo dei colossi tecnologici che dominano la scena digitale. In un’epoca in cui la centralizzazione dei dati e l’influenza delle piattaforme sui comportamenti sociali sono cresciuti esponenzialmente, Mastodon rappresenta un’alternativa che promuove la diversità, la trasparenza e la sovranità digitale.

In sostanza, Mastodon non solo offre un’alternativa alle piattaforme tradizionali, ma apre anche la strada a un futuro digitale più inclusivo e democratico.

Per chi fosse interessato, mi trovate come @lucaspeed@mastodon.uno