Quando ero bambino, mio padre era il mio eroe. Non parlava molto, ma sapeva fare qualsiasi lavoro e aggiustare qualsiasi cosa si rompesse in casa, e aveva quella forza che mi faceva sentire protetto anche nei momenti peggiori. Era anche severo, non posso negarlo. Ma oggi, quell’uomo – dal quale ho imparato a fare qualunque cosa – sta scomparendo davanti ai miei occhi. Non è morto. Peggio: se ne sta andando a pezzi, lentamente, divorato da una malattia silenziosa e crudele che si chiama demenza.
All’inizio erano solo piccole dimenticanze. “Dove ho messo le chiavi?”, “Che giorno è oggi?”. Ne ridevamo insieme, come si fa con le stranezze dell’età: “Te stai a rincojonì!”. Nessuno di noi voleva ammettere che c’era qualcosa di più. Poi, però, ha iniziato a dimenticare fatti, volti, luoghi familiari. Ha cominciato a confondere la sorella con la madre. Un giorno mi ha guardato negli occhi, con uno sguardo smarrito, come se non mi riconoscesse. E’ passato, è stato un momento, ma terrificante.
Mi si è spezzato qualcosa dentro. Non è un dolore che si possa spiegare. È come se ogni giorno perdessi un pezzo di lui, mentre il suo corpo è ancora lì, davanti a me. A volte sembra tornare, per qualche minuto, magari per ricordare un vecchio aneddoto, una battuta, un nome. E io trattengo il fiato, cercando di godermi quei frammenti di lucidità come se fossero oro. Ma poi scivolano via. E resta solo il silenzio. O la confusione. O peggio ancora, l’aggressività.
Lo vedo frustrato, arrabbiato con il mondo, con se stesso, con me. A volte – ultimamente meno – piange come un bambino, altre volte mi accusa di cose mai avvenute. Cerco di non prendermela, ma fa male. Fa un male cane. Perché so che non è lui. E allo stesso tempo… è ancora lui. Solo che non lo riconosco più.
Le giornate sono diventate un campo minato: svegliarsi senza sapere cosa combinerà, cercare di tenerlo al sicuro quando vuole uscire e non sa dove andare, spiegargli per la centesima volta che la mamma — sua moglie, mia madre — non ce l’ha con lui. E nemmeno io. Cerchiamo solo di evitare come già successo che salga di nascosto sul tetto per togliere le foglie dalla grondaia. E non è l’unica cosa rischiosa che si sente in diritto di fare.
Mi sento impotente. Solo. Triste. A volte arrabbiato con lui, anche se so che non dovrei. La verità è che sto vivendo un lutto che non finisce mai. Sto perdendo mio padre, ma non posso lasciarlo andare, perché ha ancora bisogno di me. Perché il suo corpo è ancora qui, e io non riesco a smettere di sperare, inutilmente, che domani possa tornare ad essere com’era.
Scrivo questo perché – e questo sembra quasi il leitmotiv di questo blog – so che non sono solo. Perché ci sono tanti figli e figlie là fuori che stanno vivendo la stessa lenta tragedia. E perché sento il bisogno di urlare il mio dolore in un mondo che spesso ignora queste sofferenze silenziose, quotidiane, logoranti.
Vorrei solo poterlo riabbracciare, davvero. Sentire ancora una volta la sua voce chiamarmi con quella sicurezza che aveva un tempo. Vorrei poter tornare ad essere figlio, senza dover essere anche il suo genitore. Ma questa malattia bastarda non fa sconti. Ti prende tutto, poco alla volta. E io, ogni giorno, cerco solo di non perdermi anch’io.