Non avrei mai pensato che un giorno mi sarei trovato a scrivere queste parole. Lasciare il mio gruppo musicale è stata una delle decisioni più dolorose e assurde che abbia mai preso. Non perché non sapessi che fosse arrivato il momento — lo sapevo da tempo — ma perché ho lasciato per permettere a qualcun altro di restare. Qualcuno che, paradossalmente, stava affondando tutto quello che avevamo costruito insieme.

Eravamo una band rock, una di quelle che suonano con il cuore prima ancora che con gli strumenti. Siamo partiti da piccoli locali, stanzini male insonorizzati, prove infinite e litri di sudore sul palco. E come ogni gruppo che si rispetti, avevamo i nostri equilibri fragili, le nostre tensioni, ma anche quell’energia che ti fa sentire vivo ogni volta che scatta la prima nota.

Ma c’era anche lui. Lo chiamerò semplicemente così. Il carismatico, il simpatico, il “fuoriclasse”, almeno a sentire lui. Ma col tempo, mi sono reso conto. Ha iniziato a pretendere, a manipolare, a dividere. Ogni decisione doveva passare da lui. Ogni arrangiamento era “sbagliato” se non seguiva le sue indicazioni. Ogni critica diventava un affronto personale. E se provavi a opporti, eri subito il problema.

Io ho provato a parlare. A negoziare. A chiedere lo stesso spazio per tutti. Ma niente: la risposta era sempre un sorriso sprezzante e quella frase che ci siamo sentiti dire in mille salse — “Senza di me, questo gruppo non farebbe nemmeno serate.”

Il peggio è stato vedere come alcuni ci credevano. O forse si erano solo arresi.

Quando c’è stato l’ultimo confronto, nel quale abbiamo esternato le nostre preoccupazioni e mi sono opposto alla sua ultima decisione presa senza sentire le nostre opinioni, con l’alterigia che lo ha sempre contraddistinto ha detto “Per me è finita, me ne vado“.

Sapevo che sarei stato meglio senza di lui ma allo stesso tempo vedere gli altri arrabbiati e preoccupati per il suo abbandono, mi ha fatto riflettere.

Alla fine, l’alternativa era restare e lottare contro un muro, oppure… mollare.

E così ho fatto. Ho lasciato. Non perché non ci tenessi, ma perché non volevo vedere la band morire tra tensioni e silenzi pesanti. Ho fatto un passo indietro, lasciando il palco a quello che aveva bisogno di sentirsi sempre al centro dell’attenzione, a qualunque costo.

Non ho visto levate di scudi a difesa della mia posizione. Probabilmente non le meritavo.
Quello che non capisco è perché difenderlo. Perché pregarlo e farlo sentire ancora più importante di quanto si senta. Perché decidere di continuare con questo personaggio tossico e passare i prossimi mesi o anni a farsi comandare a bacchetta… fino alla prossima discussione.

È stato devastante. Uscire dal gruppo non è solo rinunciare alla musica che suonavi, è rinunciare a una parte di te. Ho pianto. Mi sono chiesto cento volte se avessi sbagliato tutto. Ma poi, lentamente, è arrivata anche una strana pace. Il silenzio dopo il caos. La consapevolezza che, a volte, lasciare non è una fuga: è un atto d’amore. Per sé stessi. Per la musica. Anche per chi non se lo merita.

So che in molti non capiranno. Alcuni penseranno che ho mollato. Che ho avuto paura. Ma la verità è che ho scelto di non contribuire più a un ambiente che aveva smesso di essere sincero.

Magari un giorno, forse presto, tornerò su un palco. Forse no. Ma se succederà, sarà con persone che capiscono che la musica si fa insieme. Non con chi crede che comandare sia più importante che condividere.

E se lui leggerà mai queste parole… spero capisca. Anche se, onestamente, non ci credo più.

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