Mi sveglio senza fretta. Non che abbia qualcosa da fare.
La sveglia non suona più, non serve. Non ci sono prove, né date da segnare, né strade da raggiungere con il basso in spalla e il cuore che corre avanti, come un cane sciolto.
Il tempo adesso è una cosa liquida, che scorre piano tra le dita senza lasciar traccia, come acqua sporca nel lavandino.

A peggiorare la situazione, sono anche in ferie.

Avevo una band. Avevo una casa fatta di suoni, una famiglia costruita tra amplificatori, cavi e leggii, tra gli sguardi complici durante un ritornello riuscito e i silenzi dopo una sfuriata per l’ennesima canzone che non veniva.
Adesso ho solo silenzi. E non quelli densi, pieni, che si creano tra due accordi ben messi. No.
Silenzio e basta.
Quello che ti ronza nelle orecchie come un acufene dell’anima.

Passo le giornate a fissare il mio basso. Sta lì, appoggiato nel rack contro la parete, come un animale addormentato, che ogni tanto apre un occhio per ricordarmi che esiste.
Lo prendo, lo suono. Ma dopo un paio di pezzi mi fermo.
Perché suonare per me stesso non basta. Non è mai bastato.
La musica è dialogo, è urlo, è risposta.
Ma io parlo da solo, adesso. E non c’è nessuno che mi risponde.

Guardo l’orologio. Sempre.
Conto le ore senza contare su niente.
Bevo caffè che non mi serve, birra che non mi disseta. Per fortuna non fumo.
Provo a scrivere, ma le mie parole mi suonano vuote.
A che serve una strofa se non hai una voce che la canta, una batteria che le corre dietro, un basso che la tiene in piedi?

La solitudine è un amplificatore al massimo volume: ti rimbomba dentro, ti fa tremare le ossa, ma nessuno la sente da fuori.
La gente ti vede, annuisce, ti chiede “quando vai a suonare?”, come se fosse una pausa.
Ma non è una pausa.
Loro non lo sanno ancora.
E’ una fine senza scena finale.

E intanto i giorni si allungano come code ai semafori.
Lenti, inutili, pieni solo di quel pensare continuo che diventa ossessione:
Cosa ho fatto? Dove sono finiti tutti?
Poi ricordo che è stata colpa mia.
E le risposte si perdono in un riverbero infinito, come quando dimentichi di abbassare il delay e la tua voce ti rincorre stanca, spezzata, lontana.

Ogni notte sogno di tornare sul palco.
Nel sogno le luci si accendono, sento le bacchette che contano “uno, due, tre, quattro”.
E poi mi sveglio.
Nel silenzio.
Ancora.
Sempre.

Mi manca il rumore.
Mi manca il disordine.
Mi manca l’attesa prima del primo accordo.

Ora non resta che aspettare.
E pensare.
Pensare.
Pensare.

Come se un giorno, in mezzo a questo tempo che non ha più forma, qualcosa potesse suonare ancora.
Magari anche solo un’eco.
Ma non mia.
Di una band.
Di nuovo.

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