What’s on my mind

Il mio videat psichiatrico: un incontro tra scienza e interpretazione

Qualche tempo fa in previsione di un intervento chirurgico, il medico mi ha chiesto di sottopormi a un videat psichiatrico. E’ un termine un po’ solenne per indicare una valutazione psichiatrica, cioè un colloquio approfondito con uno specialista che cerca di capire come stai, cosa provi, e in che modo la tua mente sta reagendo al mondo.

Ero curioso di conoscere il risultato anche se non c’era una crisi vera e propria in atto o cose di me che avrei preferito conoscere meglio. Era più la curiosità di capire se sarebbe stato possibile mettere ordine dentro una stanchezza che non riuscivo a definire: notti poco dormite, pensieri che tornavano a ripetizione, un senso di vuoto che non si lasciava afferrare.

La visita in sé

Il videat si è svolto in modo sobrio, quasi tranquillo. La psichiatra mi ha fatto domande su tutto: la mia storia familiare, il lavoro, le abitudini quotidiane, quelle alimentari, i momenti in cui mi sento meglio o peggio.
Non era un interrogatorio, piuttosto una conversazione controllata, in cui ogni dettaglio veniva annotato con attenzione. Mi ha osservato mentre parlavo, come se cercasse di capire qualcosa non solo da ciò che dicevo, ma anche dal modo in cui lo dicevo.

Nei giorni precedenti, a casa, ci sono stati 4 ore piene di test e questionari che le ho inviato, poi, in studio, solo un’ora abbondante di parole e silenzi. Alla fine ho avuto la sensazione che la vera diagnosi si formasse nell’aria, più che su una cartella clinica.

La mia riflessione

Uscendo dallo studio, mi sono chiesto quanto di ciò che avevamo detto appartenesse alla sfera della scienza, e quanto invece a quella dell’interpretazione umana.
Forse è una deformazione culturale, ma quando penso alla scienza immagino esperimenti che si possono ripetere, dati che si possono verificare, risultati che non cambiano a seconda di chi li osserva.
La mente, invece, sfugge a tutto questo. Due psichiatri potrebbero leggere la stessa storia in modi diversi, proporre trattamenti differenti, trarre conclusioni opposte. Eppure, entrambi potrebbero avere ragione nel loro contesto.

Non dico che la psichiatria sia del tutto inutile — anzi, credo che possa offrire ascolto e sollievo — ma ho l’impressione che funzioni più come un’arte clinica che come una scienza esatta. Forse è proprio lì che risiede la sua presunta forza: nel provare a comprendere l’imponderabile, invece di misurarlo.

Cosa mi è rimasto

Non parlerò del risultato della visita perché non è questo il motivo di questo post. D’altra parte il videat non mi ha dato risposte definitive, ma mi ha aiutato a guardarmi con un po’ più di distanza.
Non ho trovato formule o soluzioni, ma uno spazio di dialogo, un modo per prendere sul serio certi pensieri senza doverli spiegare tutti.
E ho capito che forse non importa se la mente si lascia o meno “scientificare”: ciò che conta è che qualcuno la tratti con curiosità e rispetto.


Che fine ha fatto l’italiano?

Signori, ho una teoria: l’italiano non è morto, si è semplicemente preso una vacanza lunga. Probabilmente se la sta spassando da qualche parte in spiaggia con un mojito in mano, mentre noi, qui, scriviamo cose tipo ne ho bisogno ha me e pensiamo pure di aver fatto bella figura.

La prima vittima della strage grammaticale è la povera h. Quella letterina muta, invisibile, apparentemente inutile, che però decide il destino di intere frasi. Un tempo sapevamo distinguere ho da o, ha da a. Adesso ci ritroviamo davanti a capolavori come: “Sei bravo, lo ai dimostrato.” E io, davanti a quel ai, penso sempre: “Sì, lo hai dimostrato… di non aver mai aperto un libro di grammatica.”

Poi c’è la guerra civile tra accenti e apostrofi. Perché diventa perchè, po’ diventa e un po senza niente è il colpo di grazia. Vogliamo parlare di qual è? No, meglio di no, che rischio di dovermi alzare e sbattere la testa al muro.

Il capitolo congiuntivo merita un monumento. È diventato un animale mitologico: tutti ne parlano, ma nessuno l’ha mai visto davvero in libertà. Frasi tipo: “Spero che sei felice” o “Magari avevo i soldi” circolano tranquille, come se non ci fosse nulla di strano. Io ogni volta immagino il congiuntivo seduto in un angolo, con la valigia pronta, pronto a emigrare in Francia dove, dicono, è ancora rispettato.

La punteggiatura, invece, è ormai anarchica. Alcuni la usano come mitragliatrice: “Ciao,,, come stai??!?!?!”. Altri la ignorano del tutto: “ciao come stai ho visto il tuo messaggio volevo dirti che ci vediamo domani tanto lo sai che io ci sono sempre ciao.” Leggere certe cose è come correre una maratona senza fiato.

Poi arrivano i plurali creativi, quelli che trasformano la lingua in un laboratorio di Frankenstein: le braccia diventa le braccie, le uova diventano le uove, e il plurale di qualche… beh, quello non dovrebbe nemmeno esistere, eppure eccolo lì: qualche persone. Complimenti, avete inventato la matematica quantistica della grammatica.

Il capitolo social è un festival a parte: scrivere tutto in maiuscolo per sottolineare l’importanza del messaggio. Per esempio: “SEI UNA PERSONA MERAVIGLIOSA TI VOGLIO BENE.” Leggerlo dà la stessa sensazione di avere qualcuno che ti urla in faccia mentre ti offre un gelato.

E che cosa dire del fantastico “non vedo cosa possa centrare” al quale vorrei sempre rispondere “e chi sei Guglielmo Tell?”
Sembra che la differenza sostanziale tra “entrarci” e “centrare” sfugga ai più, di conseguenza “cosa c’entra” diventa “cosa centra” e via con tutte le conseguenti coniugazioni!

Infine, non possiamo dimenticare i nostri amici dell’inglese infilato a caso, perché fa figo. Il classico “Andiamo a fare shopping al centro, perché il mood è troppo cool.” Un trionfo. Peccato che poi gli stessi scrivano week and o computer portatile da tavolo.

Eppure, nonostante tutto, io l’italiano lo amo. Anche nelle sue versioni disastrate, sbagliate, maltrattate. Forse perché è un po’ come noi: pasticciato, confuso, creativo, ma sempre capace di sorprendere. Certo, se potessimo almeno smettere di scrivere pultroppo e a me mi piace, magari la lingua smetterebbe di svenire a ogni frase e tornerebbe dalle ferie.