Ci siamo.

E’ una giornata diversa da tutte le altre. L’ultima prima dell’intervento. C’è un silenzio che sembra più pesante del solito, quasi come se la casa stessa stesse trattenendo il fiato insieme a me. Ho provato a guardare un film, a leggere, a giocare con la console, a distrarmi in qualche modo, ma niente funziona: la testa torna sempre lì, a domani.

Ho paura. Una paura che non è fatta solo di pensieri razionali, ma anche di immagini improvvise che mi attraversano. Il letto d’ospedale, le luci fredde della sala operatoria, i volti coperti delle persone attorno a me. Sento già il cuore accelerare solo a immaginarlo. Ho paura di chiudere gli occhi e non riaprirli, paura di non avere più il controllo, paura di quel momento in cui dovrò affidarmi completamente ad altri.

Eppure, accanto alla paura, c’è la speranza. Una speranza che mi sorprende, perché nonostante i dubbi non riesco a soffocarla. Spero che questo intervento sia un nuovo inizio. Spero di poter tornare a fare cose che da tempo evito, di non sentirmi più limitato, di avere finalmente un corpo che non mi trascini sempre verso il basso. Mi piace pensare che fra qualche mese riuscirò a camminare con più leggerezza, magari anche a ridere senza quel peso che porto da tanti, troppi anni.

Poi ci sono i dubbi, quelli più difficili da scacciare. E se non fosse la scelta giusta? E se non funzionasse come spero? A volte mi sembra di giocare una partita a carte coperte con la vita: so che devo farlo, che non ci sono molte alternative, ma la certezza non ce l’ho. E questa incertezza mi punge ogni volta che provo a immaginare il futuro.

Nonostante tutto, sento anche gratitudine. Non lo avrei detto, ma c’è. Sono grato ai medici che domani si prenderanno cura di me, con la loro professionalità che a volte sembra quasi fredda, ma che in realtà è ciò che mi permetterà di affrontare questa sfida. Sono grato a chi mi sta accanto, a quelli che mi hanno ascoltato senza giudicare le mie paure, a chi mi ha stretto la mano anche senza parole. E sono grato anche a me stesso: non è facile ammettere di avere paura, non è facile affrontarla, eppure eccomi qui, a scriverne.

La notte, poi, sarà lunga. Forse dormirò poco, forse niente. Forse mi girerò nel letto contando le ore, ascoltando ogni minimo rumore. Ma domani, quando sarà il momento, mi alzerò e andrò. E so che, nel momento in cui mi affiderò a chi sa cosa fare, dovrò lasciare andare ogni resistenza.

Domani mi aspetta un passaggio importante, e io, nel mio piccolo, cercherò di viverlo con la stessa dignità con cui affronterò questa notte di attesa.

Domani non sarò invincibile, non sarò forte nel senso che spesso si intende. Sarò umano, fragile, nudo davanti all’ignoto. E sono certo che in questa fragilità c’è il seme più autentico del coraggio.

E ai pochi che leggeranno queste parole, dico solo questo: non abbiate paura di avere paura. Non vergognatevi di tremare, di dubitare, di sentirvi piccoli. Perché è proprio lì, in quell’intimo spazio di fragilità, che può nascere la speranza. Ed è da lì che, un passo dopo l’altro, si ricomincia a vivere.

What’s on my mind

Il mio videat psichiatrico: un incontro tra scienza e interpretazione

Qualche tempo fa in previsione di un intervento chirurgico, il medico mi ha chiesto di sottopormi a un videat psichiatrico. E’ un termine un po’ solenne per indicare una valutazione psichiatrica, cioè un colloquio approfondito con uno specialista che cerca di capire come stai, cosa provi, e in che modo la tua mente sta reagendo al mondo.

Ero curioso di conoscere il risultato anche se non c’era una crisi vera e propria in atto o cose di me che avrei preferito conoscere meglio. Era più la curiosità di capire se sarebbe stato possibile mettere ordine dentro una stanchezza che non riuscivo a definire: notti poco dormite, pensieri che tornavano a ripetizione, un senso di vuoto che non si lasciava afferrare.

La visita in sé

Il videat si è svolto in modo sobrio, quasi tranquillo. La psichiatra mi ha fatto domande su tutto: la mia storia familiare, il lavoro, le abitudini quotidiane, quelle alimentari, i momenti in cui mi sento meglio o peggio.
Non era un interrogatorio, piuttosto una conversazione controllata, in cui ogni dettaglio veniva annotato con attenzione. Mi ha osservato mentre parlavo, come se cercasse di capire qualcosa non solo da ciò che dicevo, ma anche dal modo in cui lo dicevo.

Nei giorni precedenti, a casa, ci sono stati 4 ore piene di test e questionari che le ho inviato, poi, in studio, solo un’ora abbondante di parole e silenzi. Alla fine ho avuto la sensazione che la vera diagnosi si formasse nell’aria, più che su una cartella clinica.

La mia riflessione

Uscendo dallo studio, mi sono chiesto quanto di ciò che avevamo detto appartenesse alla sfera della scienza, e quanto invece a quella dell’interpretazione umana.
Forse è una deformazione culturale, ma quando penso alla scienza immagino esperimenti che si possono ripetere, dati che si possono verificare, risultati che non cambiano a seconda di chi li osserva.
La mente, invece, sfugge a tutto questo. Due psichiatri potrebbero leggere la stessa storia in modi diversi, proporre trattamenti differenti, trarre conclusioni opposte. Eppure, entrambi potrebbero avere ragione nel loro contesto.

Non dico che la psichiatria sia del tutto inutile — anzi, credo che possa offrire ascolto e sollievo — ma ho l’impressione che funzioni più come un’arte clinica che come una scienza esatta. Forse è proprio lì che risiede la sua presunta forza: nel provare a comprendere l’imponderabile, invece di misurarlo.

Cosa mi è rimasto

Non parlerò del risultato della visita perché non è questo il motivo di questo post. D’altra parte il videat non mi ha dato risposte definitive, ma mi ha aiutato a guardarmi con un po’ più di distanza.
Non ho trovato formule o soluzioni, ma uno spazio di dialogo, un modo per prendere sul serio certi pensieri senza doverli spiegare tutti.
E ho capito che forse non importa se la mente si lascia o meno “scientificare”: ciò che conta è che qualcuno la tratti con curiosità e rispetto.


Che fine ha fatto l’italiano?

Signori, ho una teoria: l’italiano non è morto, si è semplicemente preso una vacanza lunga. Probabilmente se la sta spassando da qualche parte in spiaggia con un mojito in mano, mentre noi, qui, scriviamo cose tipo ne ho bisogno ha me e pensiamo pure di aver fatto bella figura.

La prima vittima della strage grammaticale è la povera h. Quella letterina muta, invisibile, apparentemente inutile, che però decide il destino di intere frasi. Un tempo sapevamo distinguere ho da o, ha da a. Adesso ci ritroviamo davanti a capolavori come: “Sei bravo, lo ai dimostrato.” E io, davanti a quel ai, penso sempre: “Sì, lo hai dimostrato… di non aver mai aperto un libro di grammatica.”

Poi c’è la guerra civile tra accenti e apostrofi. Perché diventa perchè, po’ diventa e un po senza niente è il colpo di grazia. Vogliamo parlare di qual è? No, meglio di no, che rischio di dovermi alzare e sbattere la testa al muro.

Il capitolo congiuntivo merita un monumento. È diventato un animale mitologico: tutti ne parlano, ma nessuno l’ha mai visto davvero in libertà. Frasi tipo: “Spero che sei felice” o “Magari avevo i soldi” circolano tranquille, come se non ci fosse nulla di strano. Io ogni volta immagino il congiuntivo seduto in un angolo, con la valigia pronta, pronto a emigrare in Francia dove, dicono, è ancora rispettato.

La punteggiatura, invece, è ormai anarchica. Alcuni la usano come mitragliatrice: “Ciao,,, come stai??!?!?!”. Altri la ignorano del tutto: “ciao come stai ho visto il tuo messaggio volevo dirti che ci vediamo domani tanto lo sai che io ci sono sempre ciao.” Leggere certe cose è come correre una maratona senza fiato.

Poi arrivano i plurali creativi, quelli che trasformano la lingua in un laboratorio di Frankenstein: le braccia diventa le braccie, le uova diventano le uove, e il plurale di qualche… beh, quello non dovrebbe nemmeno esistere, eppure eccolo lì: qualche persone. Complimenti, avete inventato la matematica quantistica della grammatica.

Il capitolo social è un festival a parte: scrivere tutto in maiuscolo per sottolineare l’importanza del messaggio. Per esempio: “SEI UNA PERSONA MERAVIGLIOSA TI VOGLIO BENE.” Leggerlo dà la stessa sensazione di avere qualcuno che ti urla in faccia mentre ti offre un gelato.

E che cosa dire del fantastico “non vedo cosa possa centrare” al quale vorrei sempre rispondere “e chi sei Guglielmo Tell?”
Sembra che la differenza sostanziale tra “entrarci” e “centrare” sfugga ai più, di conseguenza “cosa c’entra” diventa “cosa centra” e via con tutte le conseguenti coniugazioni!

Infine, non possiamo dimenticare i nostri amici dell’inglese infilato a caso, perché fa figo. Il classico “Andiamo a fare shopping al centro, perché il mood è troppo cool.” Un trionfo. Peccato che poi gli stessi scrivano week and o computer portatile da tavolo.

Eppure, nonostante tutto, io l’italiano lo amo. Anche nelle sue versioni disastrate, sbagliate, maltrattate. Forse perché è un po’ come noi: pasticciato, confuso, creativo, ma sempre capace di sorprendere. Certo, se potessimo almeno smettere di scrivere pultroppo e a me mi piace, magari la lingua smetterebbe di svenire a ogni frase e tornerebbe dalle ferie.

Il mio canto libero

Da quando ho un PC, ed esattamente dall’epoca delle CPU Intel 8088 a 4.77 MHz, ho sempre utilizzato dei sistemi operativi chiusi e proprietari: MS-DOS all’inizio, passando per tutte le versioni di Windows, con un breve intermezzo a suo tempo con OS/2, e poi MacOS, sia su Macintosh che su PC. Quindi ho sviluppato una buona esperienza e conoscenza che mi permette da molti anni di svolgere a tempo perso attività di assistenza tecnica su praticamente qualsiasi sistema operativo e di riconoscerne “dall’interno” pregi e difetti.

Da qualche anno, però, ho preso una decisione che per molti può sembrare radicale: utilizzare esclusivamente software libero. Non è stata una scelta improvvisa, né dettata da una moda passeggera. E’ il risultato di un percorso fatto di riflessioni, tentativi, qualche frustrazione e molte scoperte entusiasmanti.

Il primo motivo è etico. Ogni volta che accendo un computer o uso un programma sto affidando un pezzetto della mia vita a quel software: i miei testi, le mie foto, i miei dati personali. Con il software libero ho la garanzia che il codice sia aperto e verificabile, che non ci siano pratiche occulte di sorveglianza o restrizioni arbitrarie. E’ una forma di rispetto reciproco: io posso usare il programma liberamente e in cambio chi lo sviluppa non mi impone catene invisibili.

Il secondo motivo è pratico. Col tempo ho capito che la flessibilità e la trasparenza del software libero non sono un lusso, ma un vantaggio concreto. Posso adattare gli strumenti alle mie esigenze, trovare alternative leggere quando il mio computer non è all’ultima moda, e soprattutto posso contare su una comunità di persone disposte ad aiutare e condividere conoscenza. Non è la solita assistenza impersonale: è un dialogo tra esseri umani mossi dalla stessa passione.

C’è poi la questione culturale. Scegliere software libero significa entrare in una logica di condivisione e collaborazione che va oltre lo strumento tecnologico. E’ un ottimo modo per dire: credo che il sapere debba essere accessibile, che la creatività cresca meglio se coltivata in comune. Non è un dettaglio, è un pezzo importante di come immagino il mondo.

Naturalmente, questa scelta non è priva di compromessi. Per ovvi motivi, ho deciso di escludere i videogiochi da questa regola. Non perché non apprezzi i progetti di gaming open source – ce ne sono di affascinanti e ben fatti – ma perché il panorama videoludico mainstream è dominato da produzioni proprietarie. Se volessi applicare la stessa rigidità anche al gioco, significherebbe rinunciare a esperienze artistiche, narrative e culturali che da sempre fanno parte della mia vita. I videogiochi sono, in fondo, un medium espressivo a sé, e preferisco considerarli un’eccezione, un terreno dove la regola del software libero non trova ancora sufficiente terreno fertile.

Così mi muovo in questa nuova quotidianità: lavoro, scrittura, navigazione e creatività sorretti da strumenti liberi, e un angolo riservato al gioco che resta ancorato al mondo proprietario. E’ un equilibrio imperfetto, certo, ma umano. Un compromesso che non indebolisce la scelta di fondo: la convinzione che la libertà digitale non sia un’astrazione, ma qualcosa che si può vivere, un clic dopo l’altro.

La cura

La musica non mi ha mai chiesto il permesso di entrare. E’ arrivata di colpo, un giorno, e non se ne è più andata. Ha scavato tane sotto la pelle, si è annidata nelle ossa, e da allora vivo con questo battito segreto che mi accompagna in ogni cosa.

La ascolto ovunque. Nel rumore dei passi la notte, nei clacson che si inseguono in città, nel vento che sfiora le persiane. Ogni suono è un invito a trasformarsi in ritmo, in melodia. E’ un riflesso automatico: la mano si muove da sola, come se ancora stringesse il manico del basso, come se le dita non avessero dimenticato la strada da percorrere sulle corde.

Eppure quella musica che mi salva è la stessa che mi condanna.
Ne ho scritto. Non suono più. Non ho più una band.

Sembra una frase semplice, quasi banale, ma dentro c’è un peso che non si misura. Perché una band non è solo un gruppo di persone che suonano insieme: è un corpo unico, un respiro condiviso. E’ quell’attimo in cui un certo numero di individui altrimenti singoli diventano un solo animale, che sputa fuori suoni, energia, vita. E quando quell’animale perde un arto, o quando ognuno prende la sua strada, tu resti con il cuore che batte ancora al ritmo del passato.

Ho provato a riempire il vuoto. Ho provato a suonare da solo, a inventarmi band immaginarie nelle stanze vuote. Ma manca la voce che ti rincorre, manca il basso che ti tiene per mano, manca il tamburo che ti ricorda che sei vivo. Suonare da solo è come urlare in una cattedrale vuota: la tua voce torna indietro, ma non basta.

Non MI basta.

La musica continua a trovarmi, a colpirmi quando meno me lo aspetto. Una canzone alla radio mi strappa un ricordo, un vecchio disco mi riporta a un palco illuminato, con la gente sotto che non ricordi neanche in faccia, ma che sentivi tua. Le luci calde, il sudore, il rumore che vibra nello stomaco, e quella sensazione di essere infinito, per un attimo solo. Un attimo che poi non torna.

E allora la ascolto, la musica degli altri. La canto piano, sottovoce, come se potessi restituire alla mia gola almeno una briciola di quello che ho perso. La canto urlando, quando sono da solo, per esorcizzare quella sensazione di perdita. E’ un amore che fa male: come guardare qualcuno che ami danzare con altri, senza di te. Sai che non potrai mai smettere di guardare, e che continuerai a sanguinare in silenzio.

Forse un giorno tornerò a suonare. Forse incontrerò di nuovo qualcuno con cui dividere la notte e le prove che finiscono magari quando fuori è già mattino. O forse no. Forse la mia musica resterà chiusa dentro di me, un giardino che non fiorisce più.

Eppure so che non smetterò mai di appartenerle. Anche nel silenzio, anche nell’assenza, la musica resta. E’ la mia ferita aperta e la mia unica cura.
E io, che non ho più una band, resto sospeso tra il ricordo e la mancanza, con l’anima che continua a vibrare.

Continua a respirare

Ci sono giorni in cui il mondo sembra piegarsi sotto il suo stesso peso, e io con lui. Cammino tra i gesti quotidiani come se fossero riti silenziosi: accendere la macchina del caffè, mettere le scarpe, controllare le chiavi prima di uscire. Eppure, dietro la banalità di ogni movimento, sento scorrere un filo sottile, invisibile, che mi ricorda di fare la cosa più semplice e più necessaria: continua a respirare.

Respiro mentre la città si muove come un sogno disordinato, tra semafori e passi frettolosi. Respiro quando i pensieri diventano troppo rumorosi e cerco rifugio in un dettaglio qualunque: una foglia che cade lenta, il sorriso distratto di uno sconosciuto, il vento che entra da una finestra socchiusa. Respiro per non smarrirmi, per restare.

Non è una fuga, non è rassegnazione. È piuttosto un modo di attraversare la vita come si attraversa un ponte sospeso: passo dopo passo, senza guardare troppo giù, lasciando che il ritmo del respiro faccia da guida. Ci sono sfide che non si risolvono, ferite che non guariscono in fretta, paure che si aggrappano ai fianchi come ombre. Ma ogni volta che inspiro e poi lascio andare, ricordo che nonostante tutto io sono ancora qui.

Continuo a bere il mio caffè amaro, a ridere quando qualcuno mi racconta una storia assurda, a camminare sotto la pioggia senza ombrello. Continuo ad alzarmi, a cadere, a ricominciare. Non perché sia facile, ma perché la vita non smette di chiamarmi, e io posso risponderle solo così: respirando ancora, respirando sempre.

E forse è questo il segreto: non serve capire fino in fondo, non serve avere sempre un piano perfetto. Basta restare, continuare a vivere i gesti, continuare a respirare.

Ripartire da me (anche quando fa paura)

Quando ho scritto quel post – “Quello che gli altri non dicono” – non sapevo esattamente cosa stessi cercando. Forse uno sfogo, forse comprensione. Forse, più semplicemente, volevo dire ad alta voce qualcosa che avevo sempre sussurrato solo a me stesso. Ma avendolo scritto di getto, quasi senza rifletterci, rileggerlo più e più volte mi ha aperto gli occhi su tanti argomenti ai quali ho sempre rifiutato di pensare.

Anche leggere il commento di un caro amico ha contribuito non poco a questa presa di coscienza.

Da allora, ormai più di un mese fa, sono successe alcune cose. Non tutte belle, non tutte lineari. Ma una, in particolare, ha fatto la differenza: ho deciso di riprendere in mano la mia vita.

Non nel senso hollywoodiano del “trasformarmi completamente”, iniziare a correre maratone (e farebbe già ridere così) o diventare influencer della body positivity. No. Ho fatto qualcosa di molto più difficile (e, a modo suo, molto più rivoluzionario): ho cominciato ad ascoltarmi.

Sul serio.

Ho smesso di rincorrere le aspettative altrui e ho iniziato a chiedermi: cosa voglio davvero? Come sto? Di cosa ho bisogno per stare meglio, anche solo un po’?

E la verità è che alcune risposte mi hanno spaventato. Perché richiedevano scelte, sacrifici, verità scomode. Come ammettere che certi rapporti come quello con una persona che frequentavo fin troppo spesso – anche se carichi, se non pieni, di affetto – erano diventati gabbie. Che certe abitudini, certi silenzi, certi “va tutto bene” erano solo modi eleganti per continuare a ignorarmi.

Così ho iniziato in autonomia un percorso psicologico, senza più vergognarmene. Non per “aggiustarmi”, ma per capirmi. Ho cominciato a fare un minimo di attività fisica, ma senza la pressione del “dimagrire a tutti i costi”. Lo faccio per sentire il mio corpo vivo, non per renderlo accettabile agli occhi altrui.

Ho ripreso a scrivere, a leggere, a dire più spesso “no” quando qualcosa mi fa male e “sì” quando sento di meritare di meglio. Ho iniziato a trattarmi come tratterei un amico e come un vero amico tratterebbe me: con gentilezza, senza sarcasmo, con un po’ più di fiducia.

E sì, ho anche perso qualche chilo. Ma, per la prima volta, non è quella la notizia. Il vero cambiamento è che ho cominciato a vedermi intero, non più solo come un corpo da correggere o da nascondere.

Sto imparando a costruire una versione di me che non è più definita solo da ciò che manca, ma anche da ciò che cresce: consapevolezza, resilienza, desiderio di autenticità.

Non è un lieto fine. È un inizio. E fa paura, ogni tanto. Ma è mio.

A chiunque si senta ancora imprigionato in un’immagine che non ha scelto, voglio dire questo: non siete sbagliati. Siete in viaggio. E anche se il percorso è lungo, ogni passo che fate verso voi stessi è già una forma di libertà.

Ci rivediamo lì.

Time.

Mi sveglio senza fretta. Non che abbia qualcosa da fare.
La sveglia non suona più, non serve. Non ci sono prove, né date da segnare, né strade da raggiungere con il basso in spalla e il cuore che corre avanti, come un cane sciolto.
Il tempo adesso è una cosa liquida, che scorre piano tra le dita senza lasciar traccia, come acqua sporca nel lavandino.

A peggiorare la situazione, sono anche in ferie.

Avevo una band. Avevo una casa fatta di suoni, una famiglia costruita tra amplificatori, cavi e leggii, tra gli sguardi complici durante un ritornello riuscito e i silenzi dopo una sfuriata per l’ennesima canzone che non veniva.
Adesso ho solo silenzi. E non quelli densi, pieni, che si creano tra due accordi ben messi. No.
Silenzio e basta.
Quello che ti ronza nelle orecchie come un acufene dell’anima.

Passo le giornate a fissare il mio basso. Sta lì, appoggiato nel rack contro la parete, come un animale addormentato, che ogni tanto apre un occhio per ricordarmi che esiste.
Lo prendo, lo suono. Ma dopo un paio di pezzi mi fermo.
Perché suonare per me stesso non basta. Non è mai bastato.
La musica è dialogo, è urlo, è risposta.
Ma io parlo da solo, adesso. E non c’è nessuno che mi risponde.

Guardo l’orologio. Sempre.
Conto le ore senza contare su niente.
Bevo caffè che non mi serve, birra che non mi disseta. Per fortuna non fumo.
Provo a scrivere, ma le mie parole mi suonano vuote.
A che serve una strofa se non hai una voce che la canta, una batteria che le corre dietro, un basso che la tiene in piedi?

La solitudine è un amplificatore al massimo volume: ti rimbomba dentro, ti fa tremare le ossa, ma nessuno la sente da fuori.
La gente ti vede, annuisce, ti chiede “quando vai a suonare?”, come se fosse una pausa.
Ma non è una pausa.
Loro non lo sanno ancora.
E’ una fine senza scena finale.

E intanto i giorni si allungano come code ai semafori.
Lenti, inutili, pieni solo di quel pensare continuo che diventa ossessione:
Cosa ho fatto? Dove sono finiti tutti?
Poi ricordo che è stata colpa mia.
E le risposte si perdono in un riverbero infinito, come quando dimentichi di abbassare il delay e la tua voce ti rincorre stanca, spezzata, lontana.

Ogni notte sogno di tornare sul palco.
Nel sogno le luci si accendono, sento le bacchette che contano “uno, due, tre, quattro”.
E poi mi sveglio.
Nel silenzio.
Ancora.
Sempre.

Mi manca il rumore.
Mi manca il disordine.
Mi manca l’attesa prima del primo accordo.

Ora non resta che aspettare.
E pensare.
Pensare.
Pensare.

Come se un giorno, in mezzo a questo tempo che non ha più forma, qualcosa potesse suonare ancora.
Magari anche solo un’eco.
Ma non mia.
Di una band.
Di nuovo.

The sound of silence

Non avrei mai pensato che un giorno mi sarei trovato a scrivere queste parole. Lasciare il mio gruppo musicale è stata una delle decisioni più dolorose e assurde che abbia mai preso. Non perché non sapessi che fosse arrivato il momento — lo sapevo da tempo — ma perché ho lasciato per permettere a qualcun altro di restare. Qualcuno che, paradossalmente, stava affondando tutto quello che avevamo costruito insieme.

Eravamo una band rock, una di quelle che suonano con il cuore prima ancora che con gli strumenti. Siamo partiti da piccoli locali, stanzini male insonorizzati, prove infinite e litri di sudore sul palco. E come ogni gruppo che si rispetti, avevamo i nostri equilibri fragili, le nostre tensioni, ma anche quell’energia che ti fa sentire vivo ogni volta che scatta la prima nota.

Ma c’era anche lui. Lo chiamerò semplicemente così. Il carismatico, il simpatico, il “fuoriclasse”, almeno a sentire lui. Ma col tempo, mi sono reso conto. Ha iniziato a pretendere, a manipolare, a dividere. Ogni decisione doveva passare da lui. Ogni arrangiamento era “sbagliato” se non seguiva le sue indicazioni. Ogni critica diventava un affronto personale. E se provavi a opporti, eri subito il problema.

Io ho provato a parlare. A negoziare. A chiedere lo stesso spazio per tutti. Ma niente: la risposta era sempre un sorriso sprezzante e quella frase che ci siamo sentiti dire in mille salse — “Senza di me, questo gruppo non farebbe nemmeno serate.”

Il peggio è stato vedere come alcuni ci credevano. O forse si erano solo arresi.

Quando c’è stato l’ultimo confronto, nel quale abbiamo esternato le nostre preoccupazioni e mi sono opposto alla sua ultima decisione presa senza sentire le nostre opinioni, con l’alterigia che lo ha sempre contraddistinto ha detto “Per me è finita, me ne vado“.

Sapevo che sarei stato meglio senza di lui ma allo stesso tempo vedere gli altri arrabbiati e preoccupati per il suo abbandono, mi ha fatto riflettere.

Alla fine, l’alternativa era restare e lottare contro un muro, oppure… mollare.

E così ho fatto. Ho lasciato. Non perché non ci tenessi, ma perché non volevo vedere la band morire tra tensioni e silenzi pesanti. Ho fatto un passo indietro, lasciando il palco a quello che aveva bisogno di sentirsi sempre al centro dell’attenzione, a qualunque costo.

Non ho visto levate di scudi a difesa della mia posizione. Probabilmente non le meritavo.
Quello che non capisco è perché difenderlo. Perché pregarlo e farlo sentire ancora più importante di quanto si senta. Perché decidere di continuare con questo personaggio tossico e passare i prossimi mesi o anni a farsi comandare a bacchetta… fino alla prossima discussione.

È stato devastante. Uscire dal gruppo non è solo rinunciare alla musica che suonavi, è rinunciare a una parte di te. Ho pianto. Mi sono chiesto cento volte se avessi sbagliato tutto. Ma poi, lentamente, è arrivata anche una strana pace. Il silenzio dopo il caos. La consapevolezza che, a volte, lasciare non è una fuga: è un atto d’amore. Per sé stessi. Per la musica. Anche per chi non se lo merita.

So che in molti non capiranno. Alcuni penseranno che ho mollato. Che ho avuto paura. Ma la verità è che ho scelto di non contribuire più a un ambiente che aveva smesso di essere sincero.

Magari un giorno, forse presto, tornerò su un palco. Forse no. Ma se succederà, sarà con persone che capiscono che la musica si fa insieme. Non con chi crede che comandare sia più importante che condividere.

E se lui leggerà mai queste parole… spero capisca. Anche se, onestamente, non ci credo più.