La musica non mi ha mai chiesto il permesso di entrare. E’ arrivata di colpo, un giorno, e non se ne è più andata. Ha scavato tane sotto la pelle, si è annidata nelle ossa, e da allora vivo con questo battito segreto che mi accompagna in ogni cosa.

La ascolto ovunque. Nel rumore dei passi la notte, nei clacson che si inseguono in città, nel vento che sfiora le persiane. Ogni suono è un invito a trasformarsi in ritmo, in melodia. E’ un riflesso automatico: la mano si muove da sola, come se ancora stringesse il manico del basso, come se le dita non avessero dimenticato la strada da percorrere sulle corde.

Eppure quella musica che mi salva è la stessa che mi condanna.
Ne ho scritto. Non suono più. Non ho più una band.

Sembra una frase semplice, quasi banale, ma dentro c’è un peso che non si misura. Perché una band non è solo un gruppo di persone che suonano insieme: è un corpo unico, un respiro condiviso. E’ quell’attimo in cui un certo numero di individui altrimenti singoli diventano un solo animale, che sputa fuori suoni, energia, vita. E quando quell’animale perde un arto, o quando ognuno prende la sua strada, tu resti con il cuore che batte ancora al ritmo del passato.

Ho provato a riempire il vuoto. Ho provato a suonare da solo, a inventarmi band immaginarie nelle stanze vuote. Ma manca la voce che ti rincorre, manca il basso che ti tiene per mano, manca il tamburo che ti ricorda che sei vivo. Suonare da solo è come urlare in una cattedrale vuota: la tua voce torna indietro, ma non basta.

Non MI basta.

La musica continua a trovarmi, a colpirmi quando meno me lo aspetto. Una canzone alla radio mi strappa un ricordo, un vecchio disco mi riporta a un palco illuminato, con la gente sotto che non ricordi neanche in faccia, ma che sentivi tua. Le luci calde, il sudore, il rumore che vibra nello stomaco, e quella sensazione di essere infinito, per un attimo solo. Un attimo che poi non torna.

E allora la ascolto, la musica degli altri. La canto piano, sottovoce, come se potessi restituire alla mia gola almeno una briciola di quello che ho perso. La canto urlando, quando sono da solo, per esorcizzare quella sensazione di perdita. E’ un amore che fa male: come guardare qualcuno che ami danzare con altri, senza di te. Sai che non potrai mai smettere di guardare, e che continuerai a sanguinare in silenzio.

Forse un giorno tornerò a suonare. Forse incontrerò di nuovo qualcuno con cui dividere la notte e le prove che finiscono magari quando fuori è già mattino. O forse no. Forse la mia musica resterà chiusa dentro di me, un giardino che non fiorisce più.

Eppure so che non smetterò mai di appartenerle. Anche nel silenzio, anche nell’assenza, la musica resta. E’ la mia ferita aperta e la mia unica cura.
E io, che non ho più una band, resto sospeso tra il ricordo e la mancanza, con l’anima che continua a vibrare.

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